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Processo telematico. Progresso o Regresso?

Il processo telematico non decolla perché in molti non sanno ancora in cosa effettivamente consista e per la scarsa formazione degli addetti ai lavori. Ciò che serve davvero è un’interfaccia fra i due mondi: informatico e giuridico

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La giustizia digitale (ma sarebbe, forse, più appropriato dire “digitalizzata”) dovrebbe essere un fenomeno oramai consolidato, metabolizzato, acquisito, in una parola: affermato, dal momento che le procedure telematiche nel processo civile sono la regola da quasi quattro anni.

La quotidianità professionale ci dice, invece, tutt’altro: il processo civile telematico, insomma, “funzionicchia”, ma col passar del tempo gli imbarazzi degli operatori non appaiono in diminuzione anzi e ciononostante il quadro normativo si sia stabilizzato dopo un primo periodo in cui riforme e aggiustamenti si susseguivano a ritmo convulso (per non dir isterico).
Quali, allora, le ragioni di tanta difficoltà?

Perché si continua a fare resistenza a un’innovazione i cui benefici sono — persino nel modo abborracciato e disorganico in cui è stata realizzata — comunque superiori ai comprensibili e in fondo inevitabili disagi che qualsiasi innovazione porta con sé?

Nonostante sia stato detto e ribadito usque ad nauseam, pare non essere stato compreso dai più che il PCT NON è un “nuovo” processo civile, bensì — e più banalmente — una diversa modalità di svolgere compiti e operazioni tradizionali e consuete avvalendosi dello stato dell’arte della tecnologia informatica.
Il cambiamento principale e più rilevante, dal quale discendono a corollario tutti gli altri, consiste nella cosiddetta “dematerializzazione”, ossia tutto quanto in precedenza veniva realizzato su supporto analogico (in massima parte, su carta) viene adesso fatto su supporto “digitale”, senza che tanto influenzi oltre il fisiologico la natura e la struttura del processo civile.
In altre parole, un atto processuale non vede stravolta la propria natura per il solo fatto di consistere, adesso, in un file in formato PDF, anziché, com’era prima, in una manciata di fogli di carta formato A4 più o meno fittamente riempiti di caratteri a stampa: i requisiti sostanziali dell’atto processuale, sotto il profilo squisitamente giuridico, sono esattamente gli stessi di prima e di sempre (al netto, of course, delle riforme più o meno opportune che il legislatore periodicamente ci ammannisce).
E tuttavia, il passaggio dall’analogico al digitale comporta non pochi benefici pratici:

*) le attività di deposito negli uffici giudiziari e di ritiro dagli stessi avvengono via internet, senza che gli avvocati (e/o i loro collaboratori) debbano lasciare le loro scrivanie e affollare gli uffici giudiziari, impegnando di conseguenza il già carente personale di cancelleria;

*) le stesse attività vengono svolte e perfezionate in tempo pressoché reale, senza i tempi morti derivanti dal tragitto fra lo studio e l’ufficio oppure dalle code chilometriche davanti agli sportelli del caso;

*) gli atti e i documenti digitalizzati sono conservati al sicuro e sono resi accessibili solo ed esclusivamente agli aventi diritto, mediante procedure di autenticazione di buona affidabilità: ne guadagna la tutela della privacy e, soprattutto, si scongiurano tutti i rischi di smarrimento (o, peggio, di sottrazione) legati alla necessità di stivare i traboccanti faldoni dove c’è un pochettino di spazio — per tacer di tutti i benefici collegati alle necessità di conservare i fascicoli processuali e di recuperarli all’occorrenza.

Certo, tutto ciò non risolve i problemi legati alla carenza di magistrati e personale amministrativo, ma quantomeno sgrava gli uffici da una serie di incombenze materiali che comunque comportavano un discreto impegno di risorse. In questa direzione, rimangono ancora dei passi da compiere (solo per fare due esempi, ma rilevanti: abolire il cosiddetto doppio binario dell’introduzione del giudizio, ossia rendere obbligatoria la via telematica anche per i cosiddetti “atti introduttivi”, e migliorare il sistema dei pagamenti telematici, anche solo eliminando i pur minimi costi aggiuntivi rispetto al tradizionale sistema delle marche cartacee), ma nel medio termine ciò che si è raggiunto sin qui può reggere.

La formazione informatica degli addetti ai lavori

Il bisticcio nel titolo è niente appetto al quotidiano bisticciare di avvocati, magistrati e cancellieri con i computer.
Non suoni irriverente o spregiativo, ma è realtà che la maggioranza degli operatori di giustizia (per non dire della popolazione, invero) sia profondamente a disagio con gli strumenti informatici, non appena si tratti di compiere qualche operazione appena più complessa del banale.
Riconosciamolo: il progresso tecnologico non si è accompagnato al diffondersi della conoscenza minima e necessaria all’uso consapevole degli strumenti che pur maneggiamo quotidianamente; e anche i cosiddetti “nativi digitali” in effetti manovrano computer, smartphone e altri device informatici più per istinto che altro.
Il sistema del processo telematico, invece, per quanto poco, richiede una certa consapevolezza su argomenti quali la firma digitale, i formati di file, il funzionamento della posta elettronica certificata e altro ancora, consapevolezza il cui versante giuridico dipende ineluttabilmente da quello tecnico-informatico (senza contare l’aspetto eminentemente pratico che sarebbe bene sapere dove andare a guardare le volte in cui i software utilizzati non si comportino secondo quanto è divenuto d’abitudine, visto che magari il tecnico esterno non sempre è disponibile sul momento e i termini processuali non aspettano i comodi altrui…).
Sarebbe allora opportuno (se non vogliamo usare la parola “necessario”) che venisse organizzata a livello “istituzionale” un’ampia opera di formazione degli addetti ai lavori nella materia informatica, onde garantire un sostrato minimo di conoscenze e competenze tali da consentire un adeguato approccio al processo telematico e alle problematiche che possono derivarne.
“Istituzionale” significa che la formazione non dovrebbe essere lasciata alla buona volontà dei singoli, ma gestita a livello organico, ciascuno per la sua parte di competenza (CNF e Consigli dell’Ordine per gli avvocati, Ministero della Giustizia per gli operatori pubblici), e comunque in maniera coordinata affinché tutti finiscano per “parlare la stessa lingua”.
Né può pensarsi che il fornire agli operatori (avvocati, magistrati, cancellieri, etc.) quei fondamenti d’informatica minimi, ma necessari a far loro trattare il computer alla stregua di un codice o di un altro “tradizionale” strumento professionale, si risolva in qualche corsicino raffazzonato in cui “docenti” improvvisati (né si sa quanto realmente qualificati) spiegano a un uditorio svogliato e distratto “come si usano Windows, Word ed Excel”; non perché quei software non vadano usati ma perché l’utilizzo di un qualunque software è e deve essere solo la conseguenza e non il presupposto.
In altre parole: ciò che serve davvero è un’interfaccia fra i due mondi (informatico e giuridico); questa interfaccia, invero, esiste, ed è costituita da quanti (come, immodestamente, chi scrive) almeno un poco capiscono e di diritto e di informatica, e sono in grado di collegare i due fenomeni di modo che riescano a lavorare sinergicamente; sono gli stessi che, non a caso, sono impegnati per puro spirito volontaristico nelle varie iniziative (commissioni aut similia) che i Consigli dell’Ordine adottano per fornire supporto agli iscritti che incontrino difficoltà nella gestione quotidiana del PCT.

Molti — troppi — hanno paura del processo telematico; ma la paura nasce, il più delle volte, dall’ignoranza; se si riuscisse a diffondere la conoscenza, magari si potrebbe eliminare almeno qualcuno degli intoppi che rendono la giustizia italiana un’autentica e sovente dolorosa via crucis.

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